Illustrazione concettuale di grandi opere letterarie classiche circondate da simboli di autoconoscenza e scoperta personale.
Pubblicato il Giugno 11, 2025

Contrariamente al ricordo scolastico, i classici non sono lezioni di storia, ma diagnosi precise delle nostre ansie e contraddizioni moderne.

  • Il viaggio di un eroe antico come Ulisse diventa una mappa per navigare le nostre carriere e la ricerca di un “posto” nel mondo.
  • L’insoddisfazione di un personaggio dell’Ottocento come Madame Bovary svela i meccanismi psicologici dietro la nostra ansia da social media.

Raccomandazione: Trattare questi libri non come compiti da svolgere, ma come conversazioni attuali con le menti più brillanti della storia sulla condizione umana.

Se la parola “classico” evoca in te il ricordo di polverosi pomeriggi scolastici, interrogazioni ansiogene e un senso di incolmabile distanza, non sei solo. Per molti, la grande letteratura è un capitolo chiuso, un obbligo archiviato insieme al diploma. Ci è stato detto che dovevamo leggerli “per cultura” o “perché sono importanti”, formule vaghe che raramente hanno acceso una scintilla. Questa percezione ha creato un paradosso: abbiamo a disposizione i più potenti manuali di istruzioni sulla condizione umana mai scritti, e li lasciamo a prendere polvere sugli scaffali.

L’approccio comune ci ha insegnato a vederli come monumenti del passato, oggetti da museo da analizzare con rispetto ma senza un vero coinvolgimento. Ma se il problema non fossero i libri, ma il modo in cui ci è stato insegnato a guardarli? Se la chiave non fosse studiarli, ma usarli? Questo articolo propone un cambio di prospettiva radicale: i classici non sono reliquie, ma laboratori attivi. Sono strumenti affilati, bussole precise per orientarsi nelle grandi questioni della vita, oggi più che mai. In queste pagine, gli autori hanno già analizzato e smontato i “bug” del nostro sistema operativo umano, offrendoci il codice sorgente per comprendere le nostre ansie, le nostre ambizioni e le nostre paure nell’era digitale.

Esploreremo insieme come le avventure di eroi secolari, i dilemmi di assassini tormentati e le inquietudini di eroine insoddisfatte non siano altro che lo specchio delle nostre battaglie quotidiane. Vedremo come queste storie possano diventare guide pratiche per decifrare il presente, capire meglio noi stessi e, infine, riconciliarci con il piacere profondo della lettura.

In questo percorso, analizzeremo alcuni capolavori non come semplici trame, ma come vere e proprie chiavi di lettura per la nostra esistenza. Ogni sezione aprirà una porta su un classico, mostrando come la sua tematica centrale sia sorprendentemente rilevante per le sfide che affrontiamo ogni giorno.

Il viaggio di Ulisse è il tuo: cosa ci insegna l’Odissea sulla ricerca del nostro posto nel mondo

L’Odissea non è semplicemente il racconto del ritorno a casa di un eroe dopo una lunga guerra; è l’archetipo di ogni percorso di crescita personale e professionale. Il viaggio di Ulisse, costellato di sfide, tentazioni e mostri, è una metafora potente della nostra stessa vita. Ogni tappa del suo peregrinare rappresenta un ostacolo che, in forme diverse, tutti noi affrontiamo: la tentazione di rimanere bloccati in una situazione confortevole ma stagnante (i Lotofagi), il confronto con la nostra parte più brutale e irrazionale (Polifemo), o il fascino di promesse che ci allontanano dai nostri obiettivi a lungo termine (le Sirene). L’astuzia di Ulisse, la sua celebre *metis*, non è altro che la capacità di adattamento, di problem solving e di intelligenza strategica che cerchiamo di coltivare nella nostra carriera e nelle nostre relazioni.

Questo poema epico, databile intorno al 750 a.C., ci insegna che il vero obiettivo del viaggio non è solo la destinazione finale, Itaca, ma la trasformazione che avviene lungo il cammino. Ulisse parte da Troia come un guerriero e ritorna come un uomo che ha conosciuto il dolore, la perdita e, soprattutto, se stesso. La sua ricerca di “casa” è in realtà la ricerca di un’identità, di un ruolo definito nel mondo dopo che il caos della guerra ha spazzato via ogni certezza. Non è forse quello che accade a noi dopo una grande crisi personale o un cambiamento radicale di vita?

Illustrazione simbolica del viaggio di Ulisse come metafora della ricerca personale e della crescita attraverso le sfide.

L’incredibile modernità dell’opera omerica risiede proprio in questa sua universalità. La sua struttura narrativa è così fondamentale che continua a essere un punto di riferimento culturale. Non è un caso che il romanzo modernista Ulysses (1922) di James Joyce sia stato significativamente influenzato dall’Odissea, dimostrando come questo “codice sorgente” narrativo sia capace di generare nuove storie e nuovi significati anche a millenni di distanza. Leggere l’Odissea oggi significa avere una mappa per interpretare le nostre sfide, riconoscendo gli archetipi che si nascondono dietro le difficoltà quotidiane e trovando l’ispirazione per superarle.

Per comprendere appieno questo concetto, è utile rileggere i fondamenti del viaggio come metafora della vita che abbiamo appena esplorato.

Dentro la mente di un assassino: perché “Delitto e castigo” è più avvincente di una serie crime su Netflix

Le moderne serie crime ci hanno abituato a indagini meticolose, a caccia di indizi e a colpi di scena. Eppure, pochi thriller riescono a eguagliare la tensione psicologica di “Delitto e castigo”, un romanzo in cui conosciamo l’assassino, il movente e le modalità del delitto fin dalle prime pagine. L’enigma che Dostoevskij ci pone non è “chi è stato?”, ma una domanda molto più profonda e inquietante: “cosa succede nella mente di un uomo dopo che ha superato il limite morale?”. Il vero protagonista del romanzo non è l’omicidio, ma la disintegrazione della coscienza di Raskolnikov. La sua pena non è la prigione, ma il tormento interiore, l’auto-isolamento e la disconnessione dalla comunità umana, un tema di un’attualità sconcertante nell’era della solitudine digitale.

Dostoevskij ci trascina in un’esplorazione quasi clinica della psiche umana, anticipando di decenni molti concetti della psicoanalisi. La grandezza del romanzo, infatti, è considerare che ha definito la letteratura psicologica moderna, trasformando la narrativa in uno strumento di indagine dell’inconscio. Non seguiamo semplicemente le azioni di Raskolnikov, ma siamo immersi nel suo flusso di pensieri, nelle sue razionalizzazioni, nelle sue febbri e nei suoi incubi. Ogni personaggio secondario, dal tormentato Marmeladov alla pura Sonja, funge da specchio, riflettendo una parte della sua anima frammentata.

Questa immersione totale è ciò che rende la lettura un’esperienza più potente di qualsiasi serie TV. Non siamo spettatori passivi, ma partecipi di un dramma interiore. Come sottolinea un’analisi critica:

La gravità di ciò che ha commesso diviene chiara a Raskolnikov solo dopo il delitto. Il duplice massacro non gli dà alcun senso di liberazione. I preziosi che ha rubato non gli interessano più, nel borsellino strappato al collo della vecchia non guarda dentro: quegli oggetti sono roba sporca. Raskolnikov si muove da subito simbolicamente verso il desiderio inconscio di tornare a essere quello di prima, di ripristinare un’integrità interrotta.

– Erica Klein, Il Ruolo Terapeutico

Leggere “Delitto e castigo” significa confrontarsi con le domande ultime sulla libertà, la colpa e la redenzione. Ci costringe a chiederci: dove si trova il confine tra il bene e il male? Un fine nobile può giustificare mezzi terribili? E, soprattutto, è possibile sfuggire alla propria coscienza? Queste domande, oggi, risuonano in ogni dibattito etico, dalla politica alla tecnologia.

Per assimilare la profondità di questa analisi, è utile soffermarsi ancora su come .

L’ansia di Madame Bovary è la nostra: come Flaubert aveva previsto l’era di Instagram e della felicità in vendita

Emma Bovary, con la sua struggente insoddisfazione e la sua fame di una vita diversa, potrebbe essere un’influencer del ventunesimo secolo. Intrappolata in una provincia noiosa e in un matrimonio mediocre, evade dalla realtà sognando le vite patinate che legge sui romanzi d’amore, proprio come oggi noi facciamo scrollando feed di Instagram perfettamente curati. La sua ansia non nasce da una reale privazione materiale, ma dal divario incolmabile tra la sua esistenza e un ideale di felicità irraggiungibile e costantemente esibito. Flaubert, più di un secolo e mezzo fa, ha diagnosticato con precisione chirurgica una patologia dell’anima che oggi conosciamo fin troppo bene.

Questo fenomeno, definito “Bovarismo”, è di fatto il primo grande esempio letterario di FOMO (Fear Of Missing Out). Come evidenziano i critici contemporanei, l’insoddisfazione di Emma deriva dal confronto costante tra la sua vita reale e le vite immaginate, un meccanismo identico a quello che alimenta l’ansia sociale nell’era digitale. Lei si indebita per comprare abiti e oggetti che le diano l’illusione di appartenere a un mondo di lusso e passione, un comportamento che oggi chiameremmo consumismo compulsivo, alimentato dal desiderio di proiettare un’immagine di sé che non corrisponde alla realtà.

Illustrazione che rappresenta la lotta interiore di Emma Bovary tra la realtà provinciale e le aspirazioni romantiche idealizzate.

“Madame Bovary” non è solo una critica alla borghesia dell’Ottocento; è un’analisi spietata della mercificazione della felicità. Flaubert ci mostra come il desiderio, quando viene dirottato verso oggetti e apparenze, diventi una trappola mortale. La tragedia di Emma è che non cerca la felicità, ma l’immagine della felicità che le è stata venduta dalla cultura del suo tempo. Il romanzo ci costringe a guardare allo specchio le nostre stesse illusioni e a chiederci quanto delle nostre aspirazioni sia autentico e quanto sia invece il prodotto di un’incessante pressione sociale e mediatica. La sua storia è un monito potentissimo sulla pericolosità di confondere l’essere con l’apparire.

Riflettere su questo parallelismo è fondamentale per capire le nostre dinamiche attuali. Rileggere ci fornisce uno strumento critico indispensabile.

Controllo tramite il dolore o tramite il piacere? Orwell vs. Huxley: chi ha previsto meglio il nostro presente

Nel pantheon della letteratura distopica, George Orwell e Aldous Huxley rappresentano due visioni del futuro apparentemente opposte ma terribilmente complementari. “1984” di Orwell ci ha dato l’incubo dello stato totalitario che controlla i cittadini attraverso la sorveglianza costante, la propaganda e il dolore (la famosa “stanza 101”). “Il Mondo Nuovo” di Huxley, invece, ha immaginato una società controllata non dalla paura, ma dalla distrazione e dal piacere: un flusso ininterrotto di intrattenimento, farmaci per la felicità (il “soma”) e gratificazione istantanea che rende i cittadini docili e apatici, incapaci di desiderare la libertà perché troppo impegnati a divertirsi.

Per decenni ci siamo chiesti chi dei due avesse ragione. Oggi la risposta sembra essere: entrambi. La nostra realtà è un ibrido inquietante delle loro due profezie. Da un lato, viviamo in un’era di sorveglianza di massa che Orwell avrebbe riconosciuto, con telecamere, tracciamento digitale e algoritmi che monitorano i nostri comportamenti. Dall’altro, siamo immersi in una cultura huxleyana di distrazione perpetua, dove i social media, lo streaming e il consumismo agiscono come un moderno “soma”, tenendoci occupati e placando le nostre ansie più profonde. Un’analisi comparativa sulla letteratura distopica sottolinea proprio questa distinzione come fondamentale per comprendere i meccanismi di potere contemporanei.

Lo stesso Huxley, in una lettera a Orwell del 1949, espresse la sua convinzione che il suo modello di controllo fosse, a lungo termine, più stabile ed efficace. Le sue parole suonano oggi profetiche:

Entro la prossima generazione i leader mondiali scopriranno che il condizionamento infantile e l’ipnosi indotta dalle droghe sono strumenti più efficaci di armi e prigioni… e che la sete di potere può essere soddisfatta inducendo le persone ad amare il loro stato di schiavitù piuttosto che ridurle all’obbedienza a suon di frustate.

– Aldous Huxley, Lettera a George Orwell (1949)

Un esempio lampante di questo modello ibrido è la Cina moderna, che combina un sofisticato sistema di credito sociale e sorveglianza (Orwell) con la seduzione del consumismo e della modernizzazione economica (Huxley). Questo caso di studio dimostra che non siamo di fronte a una scelta tra le due visioni, ma a una loro pericolosa fusione. Leggere Orwell e Huxley oggi non è un esercizio di fantapolitica, ma un atto di consapevolezza civica, essenziale per riconoscere le catene invisibili del nostro tempo, siano esse fatte di acciaio o di zucchero.

Per afferrare la rilevanza di questo dibattito, è cruciale riesaminare le due diverse ma convergenti visioni del controllo sociale.

Leggere “Cent’anni di solitudine” senza perdersi tra i Buendía: la guida per godersi la magia del realismo magico

Affrontare “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez può intimidire. La labirintica genealogia della famiglia Buendía, dove i nomi si ripetono ossessivamente di generazione in generazione, e gli eventi soprannaturali che accadono con la stessa normalità di una pioggia pomeridiana, possono disorientare il lettore. Tuttavia, superare questo scoglio iniziale significa accedere a uno dei capolavori più affascinanti della letteratura mondiale. La chiave non è cercare di applicare una logica realista, ma di abbandonarsi alla sua corrente, accettando che a Macondo il magico e il reale convivono senza alcuna distinzione.

Il cosiddetto “realismo magico” non è un semplice artificio stilistico. È una visione del mondo, una lente attraverso cui García Márquez interpreta la storia, i miti e l’anima dell’America Latina. Come sottolineano gli studiosi, nel suo universo cose perfettamente ordinarie sono presentate come magiche e cose sovrumane accadono con naturalezza. La ripetizione ciclica dei nomi e degli eventi non è un difetto, ma il cuore del messaggio: la storia è una spirale in cui l’umanità è condannata a ripetere gli stessi errori, le stesse passioni e le stesse solitudini. I vari Aureliano e José Arcadio non sono personaggi distinti nel senso tradizionale, ma incarnazioni diverse dello stesso archetipo, prigionieri di un destino familiare e storico.

Macondo, il villaggio fondato, cresciuto e infine cancellato dalla faccia della terra, è un microcosmo che riflette l’ascesa e la caduta di intere civiltà. È un archetipo della città-mondo. La solitudine del titolo non è solo isolamento fisico, ma una condizione esistenziale profonda: l’incapacità dei Buendía di superare il proprio egocentrismo e di amare veramente, che li condanna a un’eterna ripetizione senza progresso. Per godersi il romanzo, bisogna smettere di cercare un filo cronologico e iniziare a cercare i pattern, le simmetrie, gli echi tra una generazione e l’altra.

Il tuo piano d’azione: leggere “Cent’anni di solitudine”

  1. Punti di contatto: Tieni a portata di mano un albero genealogico della famiglia Buendía (si trova facilmente online). Sarà la tua mappa per non perderti.
  2. Collecte: Non cercare una logica razionale per gli eventi magici (la levitazione del prete, la pioggia di fiori gialli). Accettali come parte delle regole del mondo di Macondo.
  3. Coerenza: Concentrati sui temi ricorrenti piuttosto che sulla trama lineare: la solitudine, l’incesto, la memoria, il tempo ciclico. Nota come questi temi evolvono.
  4. Mémorabilità/emozione: Lasciati trasportare dalla prosa sontuosa e poetica di Márquez. Il piacere di questo libro è più musicale ed emotivo che puramente narrativo.
  5. Plan d’intégration: Quando finisci il libro, rifletti su come la storia ciclica dei Buendía possa essere una metafora non solo della storia latinoamericana, ma anche delle dinamiche che si ripetono nella tua stessa famiglia o comunità.

Per affrontare questo capolavoro con gli strumenti giusti, è utile tenere a mente questa guida pratica per navigare la sua magica complessità.

La storia della tua vita non è come la ricordi: come il nostro cervello riscrive il passato per dare un senso al presente

Siamo convinti che la nostra memoria sia una sorta di videocamera che registra fedelmente gli eventi della nostra vita. In realtà, le neuroscienze ci dicono qualcosa di molto più complesso e affascinante: la memoria non è un archivio, ma un narratore in continua evoluzione. Ogni volta che ricordiamo un evento, non stiamo riproducendo un file originale, ma lo stiamo letteralmente riscrivendo, modificandolo leggermente in base al nostro stato emotivo, alle nostre convinzioni e alle nostre conoscenze attuali. Questo processo, noto come “riconsolidazione della memoria”, implica che non esiste una versione oggettiva e immutabile del nostro passato.

Questo fenomeno, come dimostrano le più recenti scoperte delle neuroscienze cognitive, non è un difetto del nostro cervello, ma una sua caratteristica fondamentale. Il nostro cervello non è interessato alla precisione storica, ma a costruire una narrazione coerente di chi siamo. La memoria autobiografica serve a dare un senso alla nostra identità, a creare una storia personale che giustifichi il nostro presente e ci guidi verso il futuro. Tendiamo a ricordare più vividamente gli eventi carichi di significato emotivo e a scartare o modificare i dettagli che non si adattano alla trama principale della nostra vita.

Questa tendenza a idealizzare o a drammatizzare il passato è una strategia psicologica. Come suggerisce un’analisi sul benessere personale:

La tendenza a idealizzare il passato non è un difetto della memoria, ma una strategia psicologica adattiva per costruire un’identità stabile e positiva. Filtrando le esperienze negative dal nostro ricordo autobiografico, rafforziamo la resilienza psicologica nel presente. La lettura di grandi storie letterarie ci fornisce archetipi e strutture narrative che poi usiamo, inconsciamente, per dare forma e significato ai nostri ricordi frammentari.

Centro Studi Famiglia

La grande letteratura, in questo senso, diventa uno strumento potentissimo. Le storie che leggiamo ci forniscono gli archetipi, le strutture e le metafore che il nostro cervello usa per organizzare il caos dei ricordi. Leggere l’Odissea ci aiuta a dare un senso al nostro “viaggio”, mentre “Delitto e castigo” ci offre un linguaggio per articolare i nostri conflitti interiori. I classici, quindi, non solo raccontano storie, ma ci insegnano come raccontare la nostra stessa storia, fornendoci gli strumenti per dare forma e significato alla nostra esistenza.

Per afferrare l’importanza di questo processo, è utile riconsiderare come il nostro cervello agisca da narratore della nostra vita.

Il libro era meglio del film (o forse no?): le differenze nel raccontare una storia con parole e immagini

La frase “il libro era meglio” è un cliché quasi inevitabile in ogni discussione su un adattamento cinematografico. Ma questa affermazione, pur comune, nasconde una questione più profonda: non si tratta di una competizione di qualità, ma di una differenza fondamentale nel linguaggio. Letteratura e cinema sono due modi radicalmente diversi di raccontare una storia, ognuno con i propri punti di forza e i propri limiti. Il libro ci offre un accesso privilegiato e senza filtri alla vita interiore dei personaggi. Attraverso le parole, possiamo conoscere i loro pensieri, le loro paure e le loro speranze più recondite con una profondità che il cinema fatica a replicare. Un film, d’altra parte, ha il potere dell’immediatezza visiva e sonora, capace di creare atmosfere, suscitare emozioni e mostrare l’azione in un modo che la pagina scritta può solo suggerire.

Un buon adattamento cinematografico, quindi, non è quasi mai una trasposizione letterale. I registi più abili non cercano di “copiare” il libro, ma di tradurne lo spirito, i temi e le emozioni nel linguaggio delle immagini. Come evidenziato dalla critica cinematografica contemporanea, un grande adattamento non è fedele alla lettera, ma allo spirito dell’opera. Un esempio perfetto è “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola, liberamente ispirato a “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad. Coppola sposta l’ambientazione dal Congo belga al Vietnam, ma cattura perfettamente il nucleo tematico del romanzo: il viaggio allucinatorio nella follia umana e nella brutalità del colonialismo.

A volte, il successo di un adattamento risiede proprio nella capacità del regista di sintonizzarsi con l’immaginario dell’autore. Lo scrittore Niccolò Ammaniti ha raccontato un aneddoto illuminante riguardo all’adattamento del suo romanzo “Io non ho paura”:

Lo scrittore Niccolò Ammaniti riferisce come il regista Gabriele Salvatores, per adattare il suo romanzo ‘Io non ho paura’ al cinema, gli chiese precisamente dove lui immaginava fosse ambientato il libro. Ammaniti rispose ‘tra la Puglia e la Basilicata’, un luogo specifico nella sua mente. Salvatores girò il film proprio in quei luoghi, ricreando perfettamente quello che era nell’immaginario dell’autore, trasponendo dalla pagina allo schermo il mondo interiore del lettore.

– Niccolò Ammaniti, La Voce di New York

Capire questa distinzione tra linguaggi ci permette di apprezzare entrambe le forme d’arte per quello che sono. Invece di chiederci se il film sia “meglio” del libro, possiamo chiederci: “Cosa mi ha dato il libro che il film non poteva darmi? E cosa mi ha mostrato il film che il libro poteva solo farmi immaginare?”. Questa prospettiva arricchisce l’esperienza, trasformando una sterile competizione in un dialogo affascinante tra due modi di vedere il mondo.

Per apprezzare pienamente entrambe le forme d’arte, è importante rivedere le differenze intrinseche tra narrazione letteraria e cinematografica.

Da ricordare

  • I classici non sono oggetti da museo, ma strumenti attivi per diagnosticare e comprendere le complessità della vita moderna.
  • Personaggi come Ulisse o Madame Bovary incarnano archetipi e problemi psicologici (la ricerca di sé, l’ansia da confronto) che sono ancora centrali nella nostra esperienza quotidiana.
  • La lettura di narrativa complessa agisce come una “palestra” per l’empatia, attivando aree del cervello che ci permettono di comprendere meglio gli altri.

Mettersi nei panni degli altri non è un modo di dire: la guida per comprendere davvero le esperienze umane

In un mondo sempre più polarizzato e frammentato, l’empatia è forse la risorsa più preziosa e rara. La capacità di comprendere il punto di vista di un’altra persona, di sentire ciò che prova, è alla base della coesione sociale e delle relazioni umane significative. Ma l’empatia non è solo un sentimento; è un’abilità cognitiva ed emotiva che può essere allenata. E uno degli strumenti più efficaci per farlo è la letteratura. Quando leggiamo una storia, il nostro cervello non è un osservatore passivo. Grazie a un meccanismo neurologico che coinvolge i cosiddetti neuroni specchio, simuliamo dentro di noi le emozioni, le intenzioni e le sensazioni dei personaggi.

Come spiegano i ricercatori di neuroscienze cognitive, questi neuroni si attivano sia quando compiamo un’azione sia quando osserviamo qualcun altro compierla, permettendoci di “sentire” l’esperienza altrui. La lettura di narrativa complessa è una sorta di allenamento intensivo per questo sistema. Ci costringe a uscire dalla nostra prospettiva limitata e a entrare in menti e mondi radicalmente diversi dal nostro. Recenti studi neuroscientifici che utilizzano la risonanza magnetica funzionale (fMRI) hanno dimostrato che la lettura attiva le stesse aree cerebrali associate all’empatia e alla “teoria della mente”, ovvero la capacità di attribuire stati mentali agli altri.

I grandi classici sono particolarmente efficaci in questo “allenamento empatico” perché raramente offrono risposte facili o personaggi monodimensionali. Ci presentano figure complesse e moralmente ambigue, come Raskolnikov o Macbeth, che ci sfidano a sospendere il giudizio e a esplorare le motivazioni profonde dietro azioni che altrimenti condanneremmo senza appello. Questo esercizio di immedesimazione ci insegna a comprendere anziché a giudicare, sviluppando un’intelligenza emotiva più sofisticata. Ci abitua a vedere il mondo in sfumature di grigio, non in bianco e nero, una capacità fondamentale per navigare la complessità delle relazioni umane.

Leggere un classico, quindi, non è un atto solitario, ma un profondo esercizio di connessione. È una “palestra di empatia” che ci rende più sensibili, più comprensivi e, in ultima analisi, più umani. Fornendoci l’accesso a innumerevoli vite interiori, la letteratura ci offre la guida più completa per comprendere l’esperienza umana in tutta la sua vasta e contraddittoria bellezza.

Per interiorizzare il valore di questa pratica, è essenziale ricordare del nostro percorso.

Ora che abbiamo visto come i classici possano essere strumenti vivi e attuali, il passo successivo è superare l’intimidazione iniziale e sceglierne uno. Non come un compito, ma come un’opportunità di dialogo con una grande mente del passato su questioni che ti stanno a cuore oggi.

Scritto da Elena Conti, Elena Conti è una storica dell'arte e critica culturale con 20 anni di esperienza, specializzata nel rendere l'arte e la letteratura dei potenti strumenti per interpretare il mondo contemporaneo.